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Il futuro della città. Smart working nelle imprese milanesi al tempo del Covid-19

 A cura di Cecilia Leccardi e Ivana Pais

Gennaio 2022

 

Introduzione

L’emergenza pandemica ha portato numerose aziende e lavoratori a sperimentare lo smart working ed è ora in corso un ampio dibattito sulle possibilità di riorganizzare tempi e spazi di lavoro. Un errore da evitare è la proiezione lineare di quanto accaduto a partire dal 2020 per progettare il futuro. È invece importante analizzare criticamente quanto emerso da questa sperimentazione, valutando le specificità dello smart working emergenziale, per poi individuare elementi di continuità e di discontinuità utili a progettare nuove forme di lavoro da remoto. Per far questo, siamo partiti dalle esperienze e dalle opinioni di aziende1 e lavoratori2 della provincia di Milano. Lo smart working è prevalentemente un fenomeno urbano – e Milano assume una evidente centralità nel tessuto produttivo italiano – ma con implicazioni sia sui territori della cintura e della provincia, sia su aree geograficamente lontane, tra cui quelle di provenienza dei lavoratori occupati nelle aziende milanesi.

Questo rapporto propone una lettura orientata da due prospettive principali: l’individuazione degli scarti tra vissuto e auspicato e tra possibile e desiderabile; il rifiuto di letture dicotomiche e polarizzanti a favore di una analisi delle interdipendenze e delle complementarietà tra preferenze individuali e collettive, tra relazioni in presenza e digitali, tra territorio urbano ed extraurbano.

L’obiettivo non è prevedere l’organizzazione del lavoro nei prossimi anni ma analizzare opportunità e rischi per gli individui, le aziende e i territori con lo scopo di muovere verso un futuro desiderabile per tutti gli attori coinvolti.

1 L’indagine “Le imprese milanesi ai tempi del Covid” è stata commissionata dal Laboratorio Futuro dell’Istituto Toniolo a IPSOS S.r.l.. Il sondaggio è stato realizzato dal 26 aprile al 28 maggio 2021 su un campione probabilistico stratificato per macrosettore di attività, numero di addetti e ubicazione territoriale tramite metodologia CAWI e CATI (450 casi). Il livello di rappresentatività del campione è del 95% e il margine di errore relativo ai risultati del sondaggio è compreso fra +/- 0,9% e +/- 4,6% per i valori percentuali relativi al totale del campione intervistato.

2 Indagine svolta su un campione di lavoratori intervistati con tecnica CAWI dal 7 maggio al 14 giugno 2021 arruolati tramite i CAF ACLI (479 nella provincia di Milano, 270 nel comune).

Una nota terminologica

Prima di procedere alla presentazione dei dati, appare opportuno cercare di fare chiarezza, dal punto di vista terminologico, sui concetti di smart working, lavoro agile e telelavoro, spesso usati come sinonimi l’uno dell’altro in modo inopportuno. Nonostante l’anglicismo, in Italia la parola d’uso comune inventata per indicare una determinata evoluzione del lavoro da remoto è “smart working”, che coincide con quello che gli anglosassoni definiscono home-working o remote-working. 

Tuttavia, la legge n. 81 del 22 maggio 2017 che disciplina il fenomeno del lavoro da remoto nel nostro Paese non contiene l’espressione smart working, bensì il più italiano lavoro agile. Quest’ultimo, all’art. 18 comma 1, viene definito come “una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa”, che può essere eseguita “in parte all’interno di locali aziendali e in parti all’esterno senza una postazione fissa, ed entro i soli limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva”. Più precisamente, nell’intenzione del legislatore, la legge 81/2017 andrebbe a beneficio sia delle aziende, che potrebbero “incrementare la competitività”, sia dei lavoratori, in quanto strumento potenzialmente in grado di “agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro”.

In Italia, il fenomeno del lavoro da remoto viene indicato anche con l’espressione “telelavoro” che, secondo l’art. 1 dell’Accordo interconfederale del 9 giugno 2004, si presenta come quella “forma di organizzazione e/o di svolgimento del lavoro che si avvale delle tecnologie dell’informazione nell’ambito di un contratto o di un rapporto di lavoro, in cui l’attività lavorativa, che potrebbe anche essere svolta nei locali dell’impresa, viene regolarmente svolta al di fuori dei locali della stessa”. 

La differenza tra lavoro agile e telelavoro è stata ravvisata da alcuni nella fissità o meno della postazione lavorativa, da altri dalla regolarità o continuità con cui la prestazione lavorativa viene svolta al di fuori dei locali aziendali. 

 

1.0

L’esperienza e le opinioni delle aziende

1.1 Lo smart working che non c’è

Nel 2019, il 5,5% dei lavoratori dei Paesi EU tra i 20 e i 64 anni aveva sperimentato il lavoro da remoto (Eurostat Regional Yearbook 2021). L’Italia presenta un dato in linea con questa media: nel 2019, lo 0,8 per cento degli occupati ha usato la propria abitazione come luogo principale di lavoro, il 2,7% come luogo secondario e il 2,2% ha lavorato da casa in modo occasionale, per un totale di circa il 6% (Rapporto Istat 2020).

Questa quota è più che raddoppiata nel 2020, raggiungendo il 12,4% (+6,9%) a livello EU. Alcune Regioni italiane hanno ampiamente superato questa media: il Lazio ha registrato un incremento pari al +13,1%, la Lombardia +11,2%, la Provincia autonoma di Trento +9,6%, l’Emilia Romagna +9,2%, il Piemonte +9,1%, la Toscana +8,2%, la Sardegna +7,5%, la Campania +7,3% (Eurostat Regional Yearbook 2021). Questo incremento è stato particolarmente accentuato nelle aree urbane. 

Uno dei possibili rischi è che si vada a introdurre un ulteriore elemento di divisione nel mercato del lavoro tra lavoratori che possono lavorare da remoto e quelli che non ne hanno la possibilità. Prima di approfondire le scelte e le implicazioni delle aziende che hanno offerto lo smart working in fase emergenziale, è dunque opportuno ricostruire le caratteristiche delle aziende che non lo hanno fatto. 

Dalla nostra ricerca emerge che le aziende della provincia di Milano che non ritengono possibile lo smart working sono il 43%: sono localizzate prevalentemente nei comuni della provincia di Milano (50,8% vs 43,4% nei comuni della prima fascia e 36,6% nella città di Milano); sono di piccole dimensioni (43% delle aziende da 1 a 49 addetti vs 19% delle aziende sopra i 50 addetti); operano nel settore del commercio (77,2% vs 48% nell’industria e 32% nei servizi); hanno incontrato importanti difficoltà durante l’emergenza pandemica (56% tra coloro che hanno interrotto l’attività e 48,9% tra le aziende l’hanno ridotta drasticamente vs 26,7% tra quelle che non hanno subito modifiche, 30,5% tra le aziende che hanno ridotto solo parzialmente le attività e 31,5% tra quelle che hanno aumentato l’attività); operano esclusivamente o prevalentemente nel B2C (52,8% vs 32,9 delle aziende attive anche nel B2B); e hanno oltre 20 anni di attività (48% vs 38,1% delle aziende con meno di 20 anni). Inoltre, anche tra le aziende che ritengono possibile lo smart working, il 47,4% ritiene che sia applicabile solo per alcune funzioni e livelli aziendali. Per più della metà di queste aziende (55,2%), lo smart working potrebbe interessare meno del 20% dei lavoratori. Se l’attenzione nel dibattito pubblico è oggi concentrata sulle potenzialità e i limiti del lavoro agile, si evidenzia dunque la necessità di riflettere anche sul lavoro che resta immobile. 

 

1.2 La valutazione dello smart working

La valutazione media complessiva dell’esperienza dello smart working nel periodo emergenziale è pari a 6,64 in scala da 1 (pessimo) a 10 (eccellente). Le aziende più soddisfatte sono quelle dei comuni della prima fascia (media 7 vs 6,66 città di Milano e 6,28 provincia). La soddisfazione cresce con le dimensioni dell’azienda: 5,82 per chi lavora da solo, 6,6 da 1 a 9 addetti, 7,1 da 10 a 49 addetti, 7,48 sopra i 50 addetti. Si registra una soddisfazione leggermente più alta nel settore del commercio (6,92 vs 6,62 industria e 6,61 servizi); questo dato è interessante perché – come abbiamo visto – il commercio è il settore dove lo smart working è meno diffuso. 

Rispetto alla valutazione delle opportunità offerte dallo smart working, quella che raccoglie punteggi più elevati riguarda i benefici complessivi per i lavoratori (6,83), seguita da produttività del lavoro (6,69), bilanciamento vita lavorativa-vita privata (6,61) e contenimento dei costi aziendali (6,58). 

Ci sono poche eccezioni da rilevare rispetto all’andamento generale della soddisfazione. Alla voce “contenimento dei costi aziendali” i comuni della provincia manifestano maggiore soddisfazione rispetto alla città di Milano e ai comuni di prima fascia e chi lavora da solo è più soddisfatto rispetto alle aziende con addetti. Alla voce “benefici complessivi dei lavoratori” l’industria presenta una soddisfazione maggiore rispetto agli altri settori. Interessante rilevare che la voce “conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro” presenta un valore medio negativo sia tra le aziende che hanno ridotto drasticamente l’attività sia tra quelle che l’hanno incrementata e un giudizio molto positivo tra le aziende che hanno ridotto parzialmente l’attività. 

Rispetto ai processi e alle pratiche aziendali durante l’emergenza pandemica, meritano un approfondimento il reclutamento a distanza e lo stage.

Un giudizio almeno sufficiente, accompagnato da un interesse a proseguire nel futuro, viene espresso solo nelle aziende dei comuni della provincia di Milano e dai 50 dipendenti. Il settore del commercio presenta un livello di soddisfazione più alto rispetto agli altri ma un interesse inferiore a proseguire. 

Per quanto riguarda lo stage a distanza, l’8% ha fatto questa esperienza e solo il 2,7% intende proseguire. Si tratta quasi esclusivamente di aziende nel settore dei servizi con più di 50 addetti. 

È infine utile rilevare che, almeno in fase pandemica, le aziende non hanno posto particolari vincoli ai lavoratori circa il luogo da cui lavorare a distanza: solo il 3,9% ha limitato la scelta e il 19,6% ha fornito alcune raccomandazioni, mentre il restante 76,5% non ha dato indicazioni specifiche. Questo dato – seppur contingente e legato a una fase emergenziale – è utile per interpretare anche i dati sulla potenziale mobilità dei lavoratori che prenderemo in esame nella sezione successiva. 

1.3 Le prospettive future

Interrogate circa le prospettive future sullo smart working, il 65,1% delle aziende dichiara che manterrà invariata la situazione attuale, il 23% depotenzierà o interromperà lo smart working e l’11,9% intende potenziarlo. Tra le aziende che intendono potenziarlo ci sono prevalentemente quelle localizzate in comuni della prima fascia, di piccole dimensioni, nei servizi e nell’industria, in fase di crescita. 

Queste dichiarazioni sono riferite a un periodo ancora emergenziale ed è quindi inopportuna ogni proiezione sul futuro. È però evidente che la sperimentazione forzata effettuata nel primo lockdown potrebbe favorire processi di riorganizzazione degli spazi e dei tempi di lavoro. Questo non sembra però prefigurare – almeno per il momento – impatti dirompenti a livello territoriale. 

Il 67% delle aziende non prevede cambiamenti nella gestione degli spazi e degli uffici. Tra chi invece prefigura modifiche, prevale la riduzione delle superfici aziendali (che comunque riguarda solo il 9,3% del totale delle aziende, prevalentemente di grandi dimensioni e nei servizi), la possibilità di affittare postazioni/sale aziendali ad altre aziende/liberi professionisti (9,1%, soprattutto aziende fino a 10 addetti, nel settore dei servizi, nei comuni della provincia di Milano) e un aumento delle superfici aziendali destinate a una maggiore condivisione (6,9%, prevalentemente nella città di Milano, in aziende da 10 a 49 addetti, nell’industria).

Rispetto alle scelte di localizzazione, il 66,3% non intende operare cambiamenti, mentre il 9,6% dichiara di volersi spostare da Milano; sono prevalentemente aziende di piccole dimensioni, che operano nei servizi, localizzate in provincia di Milano, che intendono comunque restare in Italia. L’8,5% delle aziende intende ridurre gli spazi a Milano, mentre il 15,5% aumentarli, soprattutto tra aziende di grandi dimensioni del settore industriale operanti nella città di Milano. 

Questi dati non offrono dunque supporto all’ipotesi dello sullo svuotamento dei sistemi urbani maggiori, tra cui Milano, a seguito del rafforzamento dell’organizzazione del lavoro da remoto.

Le aziende manifestano un forte livello di indecisione rispetto alle prospettive dello smart working: il 26,1% non è in grado di esprimere una opinione rispetto alle ricadute sulla propria azienda. Le altre sono divise in parti pressoché equivalenti tra chi lo considera un rischio (26,1%), chi un’opportunità (21,6%) o un bilanciamento tra rischi e opportunità (26,1%). La percezione di opportunità è più forte tra aziende della città di Milano, di grandi dimensioni, che operano nei servizi; quella di rischio tra aziende della provincia di Milano, di piccole dimensioni, che operano nel commercio. 

I dubbi si riducono nella valutazione degli impatti per la Città Metropolitana (7,1%) ma le valutazioni sono poi ugualmente divise tra rischio (28,1%), opportunità (33,9%) e bilanciamento (30,8). In questo caso, le aziende di grandi dimensioni, nell’industria, nei comuni della prima fascia evidenziano le opportunità per il proprio territorio, mentre le aziende di Milano città, di piccole dimensioni, nel commercio vedono maggiori rischi.

2.0

Il punto di vista dei lavoratori

2.1 Lo smart working a Milano prima della pandemia

A Milano, prima della pandemia, lo smart working era una pratica poco diffusa tra i lavoratori che hanno partecipato alla somministrazione. Al 72,9% dei rispondenti non era concesso lavorare da remoto, anche a causa dell’attività nella quale erano impegnati, e il 9,5% si recava abitualmente sul luogo di lavoro nonostante lo smart working fosse concesso. Solo il 6% del totale dei rispondenti praticava lo smart working abitualmente (percentuale complessiva data dalla somma di chi praticava smart working 1 o 2 giorni a settimana, chi lo praticava 3 o 4 giorni a settimana e chi lavorava sempre da remoto) mentre l’11,6% dei rispondenti lo praticava molto raramente. 

Il dato emerso dal questionario si pone tuttavia in linea con quanto rilevato dall’Eurostat, secondo cui nel 2019 solo l’1% delle donne in Italia usufruiva con regolarità dello smart working, contro l’1,2% della popolazione lavorativa maschile. Tale dato può essere giustificato considerando i settori produttivi a più alta occupazione femminile, quali quello dei servizi di cura alla persona, e la più diffusa presenza di contratti non-standard tra le lavoratrici, che possono complicare la possibilità di svolgere la prestazione lavorativa da remoto. 

Se si guarda alla fascia d’età, la percentuale più elevata di lavoratori che usufruiva abitualmente dello smart working risulta tra i 40-49enni (7,8%), seguiti dagli over 50enni (5,8%) e dai 18-39enni (4,5%). Notevoli differenze di accesso allo smart working risultavano anche sulla base del titolo di studio posseduto, e dalla professione svolta – differenza che la pandemia ha ampliato, inducendo a parlare di una vera e propria diseguaglianza di accesso al diritto di lavoro da remoto: solo l’1,8% di coloro che sono in possesso di un titolo di studio basso (licenza media), e l’1,8% tra impiegati esecutivi, operai, commessi e braccianti avevano accesso allo smart working prima della pandemia. Per coloro che hanno conseguito un titolo di studio superiore (laurea, master o dottorato), il tasso si alza al 7,4%, e raggiunge il 13,6% tra i dirigenti. In posizione intermedia si collocano coloro che hanno la licenzia media (5,5% praticava smart working prima dell’avvento del Covid), e gli impiegati di concetto, funzionari ed insegnanti, di cui il 7,3% praticava abitualmente smart working prima della pandemia. 

Infine, rileva la grandezza dell’azienda: mentre tra chi svolgeva la propria prestazione lavorativa in una grande azienda (almeno 50 addetti), la possibilità di fare smart working abitualmente riguardava il 7,4% degli intervistati, il tasso si abbassa al 4,9% nelle medie imprese (10-49 addetti) e si attesta al 3,3% nelle imprese con meno di 10 addetti.

 

2.2 Lo smart working a Milano durante la pandemia

Con l’avvento della pandemia, il ricorso allo smart working ha subito anche a Milano, come nel resto delle città italiane ed europee, un brusco incremento, dettato non tanto dall’adesione manageriale e dei lavoratori alla filosofia del lavoro per obiettivi, quanto dalla necessità di proseguire le attività produttive a distanza.

Con l’avvento della pandemia, il ricorso allo smart working ha subito anche a Milano, come nel resto delle città italiane ed europee, un brusco incremento, dettato non tanto dall’adesione manageriale e dei lavoratori alla filosofia del lavoro per obiettivi, quanto dalla necessità di proseguire le attività produttive a distanza.

Si tratterebbe di quella fascia di lavoratori essenziali che, nonostante le misure restrittive imposte a livello nazionale per contenere la diffusione del virus nella sua fase più acuta, non hanno potuto interrompere le proprie prestazioni. Tra queste, è possibile annoverare gli addetti ai servizi sanitari (medici, infermieri) e di assistenza territoriale diffusa (residenze sanitarie per anziani), così come gli addetti della distribuzione all’ingrosso di beni essenziali come i supermercati, ma anche gli addetti al trasporto e alla logistica.

Notevoli differenze si registrano per quanto riguarda la variabile del genere: infatti, solo 1 donna su 5 (20,9%) si è recata sul luogo di lavoro, e oltre la metà delle rispondenti (56,3%) ha portato avanti i propri impegni lavorativi in smart working (a fronte del 43,3% della componente maschile), in un precario e difficile equilibrio con gli impegni di cura familiare, che tradizionalmente in Italia ricadono ancora in maniera quasi del tutto esclusiva sulla componente femminile della famiglia. 

Con la progressiva, seppur parziale e frammentata, riapertura di asili e scuole, il tasso di donne che ha lavorato esclusivamente in smart working è sceso al 17,6%, registrando una parità con la controparte maschile, nel periodo compreso tra ottobre 2020 e febbraio 2021, attestandosi al 15% al momento della compilazione del questionario (a fronte del 18,1% degli uomini).

I rispondenti di età compresa tra i 18 e i 39 anni, ai quali prima della pandemia era precluso in maniera massiccia lo smart working, hanno lavorato nel 59,5% dei casi esclusivamente da remoto durante il periodo del primo lockdown, contro il 55,8% dei 40-49enni e il 44,8% dei lavoratori over 50. Questa tendenza di una maggior partecipazione dei giovani allo smart working si è mantenuta costante nel tempo, attestandosi al 18,8% di giovani che lavoravano in smart working al momento della compilazione del questionario, a fronte del 13,9% della fascia più adulta, di cui circa 1 lavoratore su 3 svolgeva la propria prestazione lavorativa esclusivamente dalla sede di lavoro (47,1% vs 41,6% della fascia d’età 18-39 anni).

Anche il titolo di studio maturato e la qualifica professionale posseduta hanno inciso in maniera significativa sulla possibilità di accedere allo smart working, non solo durante la fase acuta della pandemia. Tra i mesi di marzo e maggio 2020, solo il 21,7% di chi ha un titolo di studio inferiore e il 38% dei profili professionali meno qualificati (impiegati, operai) ha lavorato esclusivamente da remoto, contro il 62% di chi ha un titolo di studio terziario e il 55% tra dirigenti e quadri intermedi. Percentuali ancora più elevate tra coloro che svolgono professioni di concetto, funzionari e insegnanti (62,1%), mentre chi ha conseguito solo il diploma ha lavorato esclusivamente da remoto nel 45,2% dei casi. Con il progressivo miglioramento della situazione epidemica, la percentuale di coloro che hanno lavorato in smart working tra i possessori di un titolo di studio inferiore e coloro che svolgono un lavoro poco qualificato si è ulteriormente abbassato rispettivamente al 3,7% e al 14,3%, a testimonianza del ricorso massiccio allo strumento dello smart working durante il primo lockdown quale unica misura di prevenzione anti-contagio, senza una pianificazione opportuna. Al momento della compilazione del questionario, solo il 3,7% di coloro che hanno un titolo di studio inferiore e il 12,6% tra operai e impiegati lavora esclusivamente in smart working, a fronte di circa un quinto dei lavoratori con titolo superiore o un alto profilo professionale (rispettivamente il 20,6% e il 17,6%).

Anche in questo caso, la tendenza si è mantenuta costante, con il 18,1% dei lavoratori residenti in città che lavora prevalentemente in smart working al momento della compilazione del questionario, a fronte del 12,8% dei residenti in provincia. Queste tendenze possono essere interpretate alla luce della struttura produttiva della città metropolitana di Milano, che vede una maggiore concentrazione di attività produttive nell’hinterland e di attività amministrative e di servizi entro i confini comunali. 

Comprensibilmente, hanno avuto più facilmente accesso al lavoro da remoto coloro che sono impiegati in aziende di grandi dimensioni, che hanno potuto lavorare esclusivamente in smart working nel 56,4% dei casi durante i mesi di marzo-maggio 2020, a fronte del 43,2% delle medie imprese e del 32,4% di coloro che prestavano la propria professionalità in aziende con meno di 10 dipendenti. Al momento della compilazione del questionario, la quota di lavoratori impiegati in piccole aziende che lavora in smart working si attesta all’8%, a fronte del 19,4% di coloro che prestano la propria professionalità in grandi aziende. 

Riassumendo, se durante il primo lockdown, circa metà dei lavoratori che hanno partecipato al questionario ha lavorato da casa (50,5%), a maggio 2021 la quota di lavoratori che ha usufruito in maniera totalizzante dell’istituto dello smart working si è assestata al 16,3%, con un massiccio ritorno in presenza 5 giorni a settimana per il 45% dei partecipanti. Rilevano tuttavia le forme ibride o miste di lavoro che stanno sperimentando circa 4 lavoratori su 10 (riconducibili alle opzioni del questionario “oggi lei lavora in smart working e presenza bilanciati”, “prevalentemente in smart working”, “prevalentemente in presenza”).

Quest’ultimo dato intercetta quello relativo alla discrezionalità del lavoro da remoto di cui usufruisce il 41,6% dei rispondenti al questionario, a testimonianza di un cambiamento nella modalità di esecuzione della prestazione lavorativa che tende a prescindere sempre più dal luogo e dal tempo di lavoro, già resa possibile dall’evoluzione tecnologica che ha investito il mondo del lavoro da qualche decennio a questa parte, a cui la pandemia ha impresso una brusca accelerazione. Per il 30,5% dei rispondenti, forme di lavoro a distanza (smart working o telelavoro) sono ancora obbligatorie al momento della compilazione del questionario, mentre il 27,9% è obbligato a recarsi sul posto di lavoro. Maggiore libertà di scelta è garantita a coloro che sono residenti a Milano (45,5% contro il 39,4% di coloro che risiedono invece in provincia), a coloro che sono in possesso di un titolo di studio almeno terziario (43,6% contro il 37% di chi ha solo la licenzia media), a impiegati di concetto, funzionari e insegnanti (49% contro il 32% di impiegati esecutivi, operai, commessi e braccianti).

 

2.3 Valutazione dello smart working

Complessivamente, il voto medio relativo all’opinione dei lavoratori sul ricorso allo smart working è 7, su una scala di preferenze che si articola da 1 (giudizio pessimo) a 10 (giudizio eccellente). 

Precisamente, lo smart working ha ottenuto la piena promozione da parte di circa 1 lavoratore su 2 (il 46% dei rispondenti ha selezionato un valore compreso tra 8-10 sulla scala di preferenza), e la sufficienza da 1 lavoratore su 3 (30,8%). 

Giudizio positivo espresso soprattutto dai lavoratori più giovani (media 7,3), da coloro che risiedono in provincia (media 7,1), seppur vi abbiano fatto meno ricorso rispetto ai colleghi residenti in città, da coloro che sono in possesso di un titolo di studio superiore (media 7,2) e dei lavoratori impiegati in grandi aziende (media 7,1). 

Tra gli aspetti collaterali più apprezzati dell’aver sperimentato lo smart working, spiccano la produttività del lavoro e il work-life balance, che hanno ottenuto rispettivamente una media di voti pari a 7 e a 6,7. 

Tra coloro che, pur in un quadro complessivamente positivo, hanno lamentato una penalizzazione della produttività lavorativa a causa dello smart working figurano coloro che hanno un titolo di studio inferiore (media 6,6), coloro che svolgono una professione poco qualificata, come impiegati esecutivi, operai, commessi e braccianti (media 6,8), e coloro che prestano la propria attività presso una piccola o media impresa (media 6,8), a riconferma dell’incidenza del ruolo, della mansione svolta e del contesto aziendale, quali condizioni essenziali per il godimento degli effetti positivi dello smart working. Occorre precisare come i dati riportati esprimono la percezione dei lavoratori rispetto alla propria produttività lavorativa; d’altro canto, è lo stesso legislatore della legge n. 81/2017 ad annoverare tra i vantaggi del lavoro agile l’aumento della produttività, ponendo di fatto un problema di misurazione della prestazione lavorativa che prescinda dalla tradizionale ora-lavoro per guardare al raggiungimento di obiettivi prefissati, così valorizzando la professionalità e l’autonomia organizzativa del lavoratore e assottigliando il confine tra lavoro subordinato e lavoro autonomo. 

Per quanto concerne invece il tema della conciliazione vita-lavoro, tra coloro che hanno manifestato più largamente il loro consenso allo smart working quale strumento utile in tal senso, spiccano i profili professionali altamente qualificati (media 7,1), per i quali il lavoro a distanza ha facilitato il bilanciamento tra carichi lavorativi e impegni familiari, probabilmente in virtù della riduzione degli impegni lavorativi in trasferta, che inevitabilmente prima della pandemia sottraevano tempo alla vita domestica. Punteggio al di sopra della media anche per i giovani di età compresa tra 18-39 anni (media 6,8), i lavoratori di età intermedia (media 6,9) e per chi è in possesso di un titolo di studio pari o superiore alla laurea (6,8). 

Al contrario, tra i più penalizzati ci sono le donne (media 6,5), che smentiscono così la parziale inefficacia dello smart working quale strumento di conciliazione tra vita lavorativa e impegni privati, per come è stato pensato in origine dal legislatore. La motivazione di un tale posizionamento femminile rispetto ai benefici apportati dal lavoro da remoto alla conciliazione vita-lavoro può risiedere in una distribuzione degli impegni domestici e familiari ancora troppo sbilanciati a carico delle lavoratrici, che pure se impegnate in smart working, faticano a dividersi tra impegni lavorativi e domestici. Nell’elenco di coloro che hanno espresso una valutazione sotto la media rispetto ai benefici di conciliazione apportati dal lavoro a distanza, figurano anche i lavoratori maturi (media 6,4), i residenti in città (media 6,5), chi ha un titolo di studio inferiore (6,3), le professioni manuali o meno qualificate (media 6,5) e chi è impiegato in una piccola azienda (media 6,2). 

Tra gli aspetti più penalizzati dallo smart working vi sono i rapporti interpersonali. In particolar modo, il rapporto coi colleghi ha ottenuto una votazione media pari a 5, e quello con i superiori pari a 5,9. Il 54,7% dei rispondenti ha bocciato il rapporto con i colleghi, esprimendo una votazione compresa tra 1 e 5, mentre il 43,2% ha bocciato il rapporto con i superiori (voto compreso tra 1 e 5). Un giudizio particolarmente negativo è stato espresso da coloro che sono in possesso di un titolo di studio inferiore, che hanno valutato con una media di 4,5 il rapporto coi colleghi e di 5,5 il rapporto con i superiori. Lo smart working ha inciso negativamente sulle relazioni interpersonali anche di coloro che hanno un profilo professionale basso, che hanno valutato con una media di 5 il rapporto coi colleghi e di 5,7 quello coi superiori. 

Per quanto concerne il rapporto con i superiori, i giovani (18-29 anni) si sono dichiarati tra i più scontenti, esprimendo una votazione media di 5,5, a fronte del 5,8 della fascia d’età 40-49 anni. La scarsa autonomia dovuta alla esperienza lavorativa ridotta ha probabilmente penalizzato maggiormente i lavoratori più giovani, che dichiarano con questi dati di privilegiare rapporti personali con i propri superiori, dai quali ricercano direttamente indicazioni direttive sul lavoro da svolgere, ed eventuali correttivi. 

Infine, per quanto concerne le relazioni interpersonali durante lo smart working, incide significativamente l’esperienza lavorativa maturata in azienda: chi ha un’anzianità lavorativa inferiore a 3 anni ha espresso una votazione media del 4,7 per quanto riguarda la qualità del rapporto coi colleghi, e del 5,5 in riferimento ai superiori, rispetto a votazioni pari a 5,1 e 5,6 manifestate da chi lavora presso lo stesso sito da oltre 20 anni. 

 

2.4 Prospettive future

Al momento della compilazione del questionario, la maggior parte dei lavoratori è soddisfatta del proprio impiego, esprimendo un grado di soddisfazione pari a 7 su una scala 1-10. Tra i più soddisfatti, si distinguono gli uomini (7,2 vs 6,9 delle donne), i lavoratori over 50 (7,1 vs 6,8 dei più giovani), coloro che ricoprono un ruolo dirigenziale (7,9 vs 6,7 di chi ha un basso profilo professionale) e coloro che sono dipendenti di grandi aziende (7,1 vs 6,7 di coloro che lavorano per una piccola impresa). A ben vedere, le caratteristiche appena elencate contribuiscono a modellare il profilo ideale del lavoratore in smart working a Milano durante il periodo pandemico. Si evince così come lo smart working si presti come una nuova modalità di lavoro proficua solo per particolari profili professionali e, se non regolato adeguatamente, può contribuire ad ampliare il divario di diseguaglianze tra l’eterogeneo bacino di lavoratori che animano la città di Milano. 

Per quanto riguarda la percezione dei lavoratori sul futuro della propria azienda, prevale un cauto ottimismo, che vede una prevalenza di intervistati che ritengono ci sia un buon bilanciamento tra rischi ed opportunità (36,7%). 

In generale, i rispondenti valorizzano maggiormente le opportunità che scaturiscono dall’adozione della nuova modalità di lavoro sperimentata in maniera emergenziale durante la pandemia (il 29,8% dei rispondenti vede più opportunità), pur non trascurandone i rischi (il 15,9% dei rispondenti vede più rischi). 

Per quanto attiene le differenze di genere, gli uomini si scoprono più positivi della controparte femminile: il 34,7% dei primi attribuisce allo smart working solo opportunità, rispetto ad un più cauto 26% espresso dalle donne, che ha recepito anche i rischi di un difficile bilanciamento tra carichi lavorativi e impegni familiari, culturalmente ancora a carico prettamente femminile. Nonostante abbiano sperimentato meno dei giovani lo smart working durante i mesi della pandemia, il 32,1% della coorte di 50+ anni si è espressa a sostegno dei benefici dello smart working, rispetto ad un più contenuto 24,2% della coorte giovanile (18-39 anni). 

Allo stesso modo, circa 1 lavoratore su 3 (31,1%) residente in provincia ha dichiarato di vedere più opportunità che rischi nello smart working, rispetto al 27,4% di chi abita a Milano città, che pure ha avuto modo di sperimentare in modo più consistente lo smart working. Il 44,8% dei profili professionali altamente qualificati identifica nello smart working solo opportunità, mentre solo il 16,4% della stessa categoria è preoccupato per i rischi. Anche la dimensione aziendale incide sulla percezione che i lavoratori hanno rispetto al futuro dell’attività nella quale sono assunti: il 22% dei lavoratori impiegati nelle piccole aziende vede solo rischi, a fronte del 14,7% di chi lavora per una grande azienda, mentre il 33% di questi ultimi propende per valorizzare esclusivamente le opportunità, contro il 20,9% di chi lavora in un’impresa compresa tra 10 dipendenti. Coerentemente con il clima di cauto ottimismo appena descritto, il 42,1% dei rispondenti percepisce che il proprio lavoro o la propria attività sia poco a rischio nei mesi successivi la compilazione del questionario. Quasi 1 lavoratore su 2 (49%) di età compresa tra i 18-39 anni dichiara di percepirsi poco a rischio, contro il 39,8% della coorte di lavoratori più adulta (50+ anni), probabilmente in forza di più solide competenze digitali e di una più specifica inclinazione ai nuovi mestieri resi possibili dalla IV rivoluzione industriale, più facilmente svolgibili anche da remoto. Il più cauto ottimismo della componente adulta della forza lavorativa meneghina può d’altro canto celare un desiderio di riqualificazione o aggiornamento professionale. Nonostante la specificità delle mansioni in capo a profili professionali altamente o scarsamente qualificati (più facilmente svolgibili da remoto i primi, meno i secondi, come emerso durante i mesi di lavoro da remoto emergenziale), entrambi i gruppi professionali hanno espresso in egual misura la scarsa preoccupazione per l’introduzione dello smart working nella propria attività lavorativa (circa 43% in entrambi i casi). Infine, per quanto concerne la dimensione aziendale, si rileva che mentre il 15,4% di chi è impiegato in una piccola impresa si percepisce abbastanza a rischio nei mesi a venire, la medesima preoccupazione è stata manifestata solo dal 9,8% di chi è impiegato in una grande azienda. Sussiste però una quota pari al 14,5% dei rispondenti che dichiara di percepire il proprio lavoro o la propria attività molto o abbastanza a rischio (dati aggregati). Si tratta per lo più di donne (16,5% vs 12,3% di uomini), più diffusamente impiegate con contratti di lavoro non-standard, in settori duramente colpiti dalla pandemia; lavoratori con un titolo di studio medio (17,3% vs 12,6% di chi ha un titolo di studio alto e 7,3% di chi ha un titolo di studio basso), che probabilmente avvertono con più preoccupazione il rischio dell’automazione rispetto agli addetti a servizi manuali; professionisti poco qualificati (18,5% vs 5,6% di quadri e dirigenti) che hanno sperimentato in minor misura l’opportunità del lavoro a distanza e addetti in aziende con meno di 10 dipendenti (19,8% vs 13,1% delle aziende con più di 50 dipendenti), che stanno sperimentando una più difficile transizione ad un modello organizzativo aziendale orientato al raggiungimento di obiettivi e risultati e non più basato sulla presenza fisica e l’ora-lavoro.

Immaginando il futuro della propria azienda, circa 4 lavoratori su 10 ritengono che rimarrà invariata la situazione in riferimento al ricorso all’istituto dello smart working come al momento della compilazione del questionario. Il 22,2% dei rispondenti ritiene addirittura che la propria azienda potenzierà lo smart working. Considerando la resistenza dimostrata pure in una metropoli a vocazione fortemente internazionale come Milano ad adottare lo smart working in maniera strutturata e controllata prima della pandemia, i dati espressi nel questionario oggetto di analisi testimoniano la brusca accelerazione che i lavoratori si attendono che la pandemia abbia dato rispetto al cambiamento delle modalità di svolgimento della prestazione lavorativa, con riferimento particolare ai tempi e ai luoghi di lavoro. L’opzione per cui la propria azienda manterrà, anche dopo il periodo di emergenza pandemica, la possibilità di lavorare in smart working al momento della compilazione del questionario è sostenuta prioritariamente da uomini (45,1% contro il 40,7% delle donne), da lavoratori adulti (45,6% contro 34,4% dei giovani), residenti in provincia (44,9% contro 38,5% dei residenti a Milano), con titolo di studio inferiore (63,6% contro 32,7% di chi ha un titolo superiore), un profilo professionale non qualificato (53,5% contro 35,2% dei dirigenti) e impiegato in un azienda di piccole dimensioni (71,4% contro 33,7% dei dipendenti di grandi imprese). 

Più ancora, il 63,2% dei rispondenti ritiene che lo smart working rappresenti soprattutto un’opportunità per la Città Metropolitana di Milano. Si tratta, anche in questo caso, per lo più di uomini (65,6% rispetto a 61,2% donne), lavoratori maturi (66,2% rispetto a 61,1% giovani), residenti in provincia (64,9% rispetto a 60% residente a Milano), con titolo di studio alto (65% rispetto 49,1% titolo inferiore), profili professionali altamente qualificati (70,4% rispetto a 62,4% impiegati ed operai), dipendenti di grandi aziende (66,3% rispetto a 45,1% piccole imprese). 

 

2.5 Restare a Milano?

La presenza fisica a Milano è ritenuta utile per l’attività che si svolge per circa 4 lavoratori su 10 che hanno partecipato al questionario (41,8%, sommando coloro che la ritengono indispensabile a coloro che la ritengono molto utile), ma una quota simile di lavoratori la considerano un aspetto indifferente o addirittura svantaggioso (37,5% sommando coloro che la ritengono del tutto indifferente, un po’ svantaggiosa e molto svantaggiosa). 

In particolare, restare a Milano è considerato indifferente da circa 1 lavoratore su 3 di età compresa tra i 18 e i 39 anni (31,2% vs 27,5% di lavoratori di età compresa tra i 40 e i 49 anni e 28,6% di over 50), probabilmente più propensi dei colleghi anziani ad accogliere opportunità lavorative internazionali, e dalla stessa quota di lavoratori residenti in provincia (31,9% vs 23,3% dei residenti in città). Il 54,5% di coloro che sono in possesso di un titolo di studio inferiore ritiene invece utile, o assolutamente indispensabile (dati aggregati), continuare a gravitare intorno a Milano, probabilmente in virtù dell’ampia offerta di lavoro di cui dispone il tessuto economico meneghino, anche per profili più scarsamente qualificati, che altrove farebbero fatica a trovare un nuovo impiego. Tra coloro che sono in possesso di un titolo di studio medio o alto, la percentuale si assesta in entrambi i casi al 40,8%.

Tra coloro che sono più restii ad abbandonare il proprio comune attuale figurano le donne (50,6% di queste resterebbe nel comune di residenza attuale al momento della compilazione del questionario contro il 44,2% della controparte maschile) e i lavoratori over 50+ (50,1% vs 46,5% tra i 18-39enni e il 44% dei 40-49enni), probabilmente perché più vincolati della controparte maschile e giovane agli impegni di cura familiare, rivolta sia verso i propri bambini, che nei confronti di eventuali genitori anziani (impossibilitati quindi ad affrontare un trasferimento). Circa 1 dirigente su 5, invece, dichiara di preferire il trasferimento in un’altra regione d’Italia. In generale, tra il 5,2% di rispondenti sul totale del campione che ha dichiarato di volersi trasferire in un’altra provincia della Lombardia, spiccano per preferenze Bergamo, Lecco e Varese (12,8% di preferenze ciascuna), seguite da Brescia, Monza e Brianza e Sondrio (10,3% ciascuna).

Infine, tra coloro che hanno manifestato il desiderio di trasferirsi in un’altra regione italiana (16,3% del totale dei rispondenti), la Toscana ha registrato il più alto numero di preferenze (17,2%), seguita dall’Emilia-Romagna (14,8%), dalla Liguria (11,5%) e dal Trentino-Alto Adige (9,8%).

 

3.0

Conclusioni

Come sostenuto dalla più recente letteratura nazionale ed internazionale, l’avvento della pandemia da Covid-19 nella primavera del 2020 ha esercitato un impatto notevole sul mondo del lavoro, sollecitando la diffusione di forme di organizzazione più flessibili. 

Bisogna però analizzare la situazione attuale e le proiezioni costruite in questo periodo di uscita dal lockdown ma ancora emergenziale con attenzione a evitare ogni effetto trascinamento: il lavoro forzato da remoto sperimentato in fase pandemica non è lo smart working e le valutazioni espresse da aziende e lavoratori rispetto all’esperienza emergenziale devono essere nettamente distinte da riflessioni circa le possibilità future di riorganizzazione del lavoro. 

L’analisi dell’esperienza emergenziale dello smart working e delle sue prospettive future nella provincia di Milano conferma alcune tendenze già evidenziate dalla letteratura, come il fatto che l’accesso all’istituto del lavoro a distanza nella declinazione dello smart working (lavoro per obiettivi e progetti) sia più agevole per un determinato profilo di aziende e di lavoratori. Infatti, tanto più qualificata è la prestazione lavorativa offerta, quanto più elevato è il (talvolta) correlato titolo di studio, quanto maggiori sono le dimensioni dell’azienda nella quale si opera, tanto maggiori sono le possibilità di usufruire dell’istituto dello smart working anche dopo l’emergenza pandemica. 

Tuttavia, il questionario ha evidenziato una serie di contraddizioni e scarti tra l’effettiva esperienza maturata da alcuni rispondenti che hanno beneficiato del lavoro a distanza e la loro percezione dello stesso. La maggior parte delle aziende del commercio ritiene che lo smart working non sia realizzabile nella propria azienda ma le poche che l’hanno sperimentato esprimono una soddisfazione superiore alle aziende degli altri settori. Allo stesso modo, le aziende della prima cintura della provincia di Milano, che pure hanno sperimentato lo smart working in misura inferiore rispetto alle aziende della città di Milano, esprimono una maggiore soddisfazione, intendono potenziarlo in futuro e vedono in questa riorganizzazione del lavoro maggiori opportunità per lo sviluppo del proprio territorio. La corona dei principali centri urbani è stata al centro dell’attenzione, soprattutto nelle analisi relative agli USA, per il cosiddetto “effetto donut”: lo spostamento delle scelte localizzative residenziali dai centri urbani alle aree periferiche. 

Dal lato dei lavoratori, i residenti nella provincia di Milano hanno espresso un giudizio più favorevole sullo smart working, pur avendone usufruito in minor percentuale rispetto ai residenti all’interno del comune di Milano. Questi ultimi si sono infatti dichiarati insoddisfatti per lo più dell’equilibrio tra vita lavorativa e impegni privati, aspetto invece apprezzato dai residenti in provincia che, lavorando in smart working, hanno sperimentato una netta riduzione dei tempi dedicati allo spostamento dall’abitazione privata alla sede dell’ufficio. Coerentemente, coloro che risiedono in provincia hanno dichiarato di attribuire all’istituto dello smart working più opportunità che rischi. 

Un altro scarto simile a quello appena descritto si è verificato tra la popolazione matura dei lavoratori (50+ anni) che, seppur abbia usufruito in maniera più contenuta dell’istituto dello smart working rispetto ai giovani (18-39 anni), si è dichiarata più ottimista rispetto ai benefici che accompagnerebbero questa nuova modalità di lavoro. Il giudizio dei lavoratori più giovani potrebbe essere inficiato dalle penalità e dai limiti che lo smart working eserciterebbe sugli aspetti relazionali del lavoro, tanto nei confronti dei rapporti con i propri colleghi, quanto nei confronti dei superiori. Questi risultati confermano l’importanza del lavoro come vero e proprio fatto sociale, ovvero come occasione di socialità e di relazionalità, e non solo come strumento di guadagno economico. In vista di una possibile e auspicata integrazione dell’istituto dello smart working nei piani organizzativi aziendali, si apre uno spazio inedito, da esplorare, per ripensare modalità lavorative che valorizzino anzitutto la persona – le sue ambizioni professionali, le sue necessità, il bisogno di relazioni autentiche. 

Contrariamente al recente fenomeno battezzato dalla letteratura nazionale con il termine di “south working”, ovvero il trasferimento o il ritorno a casa di una quota consistente di lavoratori delle grandi città del Nord verso i paesi del Sud, reso possibile dal lavoro a distanza, la città di Milano sembra confermare la propria forza centripeta: i lavoratori interessati a un trasferimento sono pochi e hanno eletto come mete preferite città toscane e liguri. Questo dipende probabilmente dalla disponibilità di seconde case da parte dei lavoratori appartenenti a classi sociali abbienti e muove nella direzione del rafforzamento della bi-residenzialità rispetto a quella del trasferimento. L’opzione per la media distanza è anche coerente con la preferenza espressa dai lavoratori verso soluzioni di lavoro ibride, con presenza nella sede aziendale per qualche giorno a settimana. Il lavoro a lunga distanza resta una possibilità interessante – soprattutto in termini di sviluppo territoriale – ma limitata a categorie specifiche di lavoratori. 

Anche la risposta delle aziende sembra confermare la tenuta delle economie di agglomerazione e smentire l’ipotesi di una trasformazione repentina delle scelte di localizzazione: la maggior parte non prevede cambiamenti nella gestione degli spazi e degli uffici e percepisce un valore aggiunto nella collocazione nell’area metropolitana di Milano, soprattutto in città. 

Infine, se da una parte il lavoro a distanza si è dimostrato una proficua occasione per riorganizzare il lavoro più a misura d’uomo, è emerso anche come lo smart working possa favorire diseguaglianze tra i lavoratori, in un mercato del lavoro già fortemente attraversato da squilibri economici e sociali. Dal giudizio espresso dai partecipanti al questionario, infatti, si evince come lo smart working avvantaggi soprattutto i lavoratori che sono in possesso di un titolo di studio medio-alto, coloro che svolgono una professione qualificata, e sono impiegati in aziende di grandi dimensioni. Se durante i difficili mesi della pandemia lo smart working è stato sperimentato da gran parte della popolazione lavorativa della città metropolitana quale misura emergenziale di contenimento del virus, l’allentamento delle misure restrittive intercorso nell’ultimo anno ha ristretto la possibilità di usufruire dello smart working a un preciso profilo lavorativo, tratteggiato poco sopra.

Sarebbe d’altro canto miope dimenticare il variegato universo di lavoratori e lavoratrici “immobili” che pure durante il primo lockdown nazionale ha continuato a prestare il proprio impiego in presenza – non solo per garantire alla popolazione il godimento di servizi di base, ma anche perché materialmente impossibilitati a lavorare a distanza. Il riferimento è tanto ai professionisti della sanità ospedaliera e delle case di cura e agli addetti alla logistica e ai presidi della grande distribuzione, quanto ai più invisibili rider, badanti e colf. Il “diritto al lavoro da remoto” che sta ricevendo i favori di parte dell’opinione pubblica e di intellettuali ed esperti diventa quindi fatto politico, nella misura in cui può acuire le diseguaglianze, se non adeguatamente regolamentato, di una popolazione disomogenea e composita come quella del capoluogo lombardo. 

Possibili soluzioni possono passare da un’attenta considerazione delle condizioni di esercizio delle singole attività e, soprattutto, da politiche di sviluppo place-based, a misura delle persone nei luoghi, orientate alla (re)infrastrutturazione fisica e digitale dei territori per facilitare lo smart working e alla redistribuzione dei vantaggi ottenuti attraverso questa riorganizzazione del lavoro prevalentemente a favore dei lavoratori che non possono usufruirne direttamente.